Perché parliamo di Aids


Tra gli anni ottanta e novanta si parlava di “allarme” Aids. Finita l’emergenza non è stata debellata la malattia. Nel 2019 sono morte nel mondo 690.000 persone. Oggi in Italia e nell’occidente, di Aids si muore molto meno, ma la diffusione del virus HIV è ancora presente e non più circoscritta alle categorie cosiddette “a rischio”. Se, di recente, nel nostro paese si assiste a una diminuzione dei casi, è perché con le terapie è possibile contenere il rischio di trasmissione del virus.
In Italia nell’80,2% dei casi (2018) la trasmissione del virus avviene per via sessuale a causa di rapporti non protetti.
La maggior parte dei nuovi casi si riferisce a eterosessuali socialmente integrati tra i 29 e i 25 anni. Spesso i giovani rimuovono il problema forti della percezione di invulnerabilità che hanno di sé, mentre in fasce di età sempre più basse si “consuma” la sessualità in modo poco consapevole.
Per paura o per leggerezza, le persone non si sottopongono precocemente al test e la malattia viene intercettata solo in stadio avanzato quando le terapie diventano meno efficaci.

La prevenzione è certamente l’aspetto centrale di un problema che però ha altre sfaccettature.

C’è ancora chi, pagando sulla propria pelle le conseguenze della malattia, vive quotidianamente una condizione di discriminazione.
Il continente africano, che presenta il 70% delle infezioni dell’intero pianeta, non avendo accesso ai farmaci, vive, come la definisce Medici senza Frontiere, una condizione di “apartheid sanitario”.

Il fenomeno ci richiede ancora oggi un impegno sociale alto. Dobbiamo diffondere quanto più possibile l’informazione, educare a comportamenti sani, sfatare i pregiudizi e assicurare alle persone ammalate una giusta qualità della vita e il diritto all’accesso alle cure soprattutto nei paesi più colpiti.